Viene aperta una doppia inchiesta sulla morte di Pino Daniele. La procura dispone l’autopsia dopo il funerale a Roma per fare luce sui presunti ritardi nei soccorsi al musicista.
Poi la salma potrà ripartire per il secondo funerale, previsto per le 19 a Napoli. Ieri sera la compagna del cantautore partenopeo, la viterbese Amanda Bonini, 50 anni, è stata ascoltata dai carabinieri nella caserma di via In Selci, di Roma.
«Amanda, che era l’unica in macchina con Pino nell’ultimo viaggio, dica tutto quello che sa. Voglio la verità sulla morte di mio marito per i miei figli e per gli altri suoi figli», dice la moglie Fabiola Sciabbarrasi, raggiunta al telefono dall’Ansa mentre entra nella camera ardente.
Nelle ore passate in tanti si sono chiesti il perché si sia deciso di trasferire Pino a Roma in automobile, anziché portarlo al più vicino ospedale in Maremma, dove il cantautore si trovava.
«Sono favorevole all’autopsia sul corpo di mio marito, se è un passaggio necessario a stabilire la verità sulla sua morte», ha aggiunto la Sciabbarrasi.
Fabiola, seconda moglie di Daniele e madre di tre dei suoi cinque figli, è certa che a guidare la macchina, fosse proprio Amanda, ultima compagna del cantautore.
«Non ho rapporti con lei a causa di come è stata gestita questa storia negli ultimi dodici mesi. Non ci parliamo ma io andrò fino in fondo. Quella sera in casa c’erano anche i miei figli Sofia e Francesco e Cristina, l’altra figlia femmina di Pino. È stata lei a riaccompagnare a Roma i miei bambini, mentre la “signora” portava in ospedale Pino. Ho letto sui giornali della gomma dell’auto bucata sull’Aurelia ma, non so, questa forse è un’invenzione».
Il cardiologo dell’artista, il professor Achille Gaspardone, sostiene invece che: «Ogni giorno per lui era un giorno di vita in più guadagnato. E lui lo sapeva bene. Questa fine era nell’evoluzione stessa della malattia. Grazie alla tecnologia degli “stent”, Pino Daniele ha, in pratica, guadagnato quasi 30 anni. A 30 anni, infatti, ha messo il primo bypass con cui ha cominciato a fronteggiare una malattia congenita. E nel tempo si sono susseguiti altri interventi (quattro in tutto, ndr ). La sua situazione era gravissima, anche se dall’esterno non si percepiva. Qui in ospedale sono state fatte tutte le manovre di rianimazione ma lui quando è arrivato era già morto. Con un infarto acuto in un caso su due si muore subito. La sua vita era appesa a un filo. Un unico vaso vascolarizzava tutto il cuore. Una volta che questo ha ceduto, non c’è stato più nulla da fare».