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In Italia sono tante le persone che soffrono di vene varicose. Si parla infatti di una persona su due. Le donne sono maggiormente colpite in un rapporto di due a uno rispetto agli uomini e un’età media più bassa, sui vent’anni circa (dati emersi dal XXIV Congresso mondiale di flebologia di Roma nel 2015). L’insufficienza venosa cronica è un problema di circolazione sanguigna che si manifesta visivamente con la dilatazione dei vasi dal percorso generalmente tortuoso che interessa il sistema venoso superficiale delle gambe (la grande e piccola safena e gli affluenti di entrambe): le vene varicose o varici vengono molto spesso sottovalutate e derubricate a seccatura estetica.

«In realtà», spiega l’angiologo Elia Diaco, presidente della sezione calabrese della Società italiana di angiologia e patologia vascolare (Siapav), «dietro può esserci un problema di salute anche grave: flebiti, ulcere venose, tromboflebiti superficiali o profonde che possono portare anche all’embolia polmonare ».

Quando si avvertono sintomi come dolore, pesantezza, bruciore o senso d’irrequietezza alle gambe e compaiono edemi agli arti inferiori, meglio rivolgersi subito a un angiologo. Il quale sottoporrà il paziente all’ecocolordoppler. Si tratta infatti di una ecografia con immagini a colori rosso e blu dei flussi venosi e arteriosi, in grado di evidenziare le eventuali lesioni, anche piccole, delle pareti dei vasi.

La tecnica classica, risalente ai primi anni del ’900, è quella della safenectomia o stripping della safena. In pratica si «sfilano» – stripping, appunto – i segmenti danneggiati di quella che è la vena più lunga del corpo umano (va dalla caviglia all’inguine).

Per le piccole varici sintomatiche che non coinvolgono la grande safena si ricorreva fino a pochi anni fa alle microincisioni della varicectomia. Meno invasiva, ma sempre chirurgica, è l’ablazione della safena mediante laser o radiofrequenza: sonde inserite attraverso una piccola incisione che liberano energia laser o radiofrequenze che occludono la vena, eliminandola dal circolo.

La scleromousse
«La scleromousse è la vera rivoluzione», come la definisce Diaco, in quanto arriva, però, nel 1997. Il chirurgo vascolare spagnolo Juan Cabrera propone per la prima volta un farmaco sclerosante in forma schiumosa (mousse) che evita il ricorso al bisturi. «È la tecnica della scleromousse », prosegue l’angiologo.

«In Francia i dottori la usano da oltre 15 anni. In Italia è stata rivalutata grazie al cosiddetto Metodo Tessari, un nuovo protocollo di preparazione e utilizzo della schiuma, ideato dal medico Lorenzo Tessari, che prevede l’unione di una sostanza, l’aetoxiscl
erolo, con l’aria o con gas biocompatibile attraverso miscelazioni eseguite in rapida successione con l’ausilio di due siringhe collegate tra loro da un rubinetto a tre vie».

Come funziona il trattamento
Il trattamento viene effettuato in ambulatorio e non richieste anestesia locale. «Tramite una sonda ecografica», spiega Diaco, «s’individua la vena da trattare, all’interno della quale vengono iniettati solitamente non oltre 5-10 ml (la quantità massima è di 20 ml) di schiuma sclerosante attraverso un piccolo catetere o un ago butterfly (a farfalla) eco-guidato. La mousse agisce sulle pareti venose dove il tessuto interno risulta danneggiato e provoca una flebite chimica, in cui il trombo ostruisce la vena, che, poi, viene ripulita dai macrofagi, specie di “cellule-spazzine”, in un mese o due».

Il procedimento dura dai due ai tre minuti e la mousse in eccesso eliminata per via venosa e catabolizzata. Asportato l’ago o il catetere, per ridurre la reazione infiammatoria si effettua poi un bendaggio elastico e compressivo che deve essere mantenuto per circa 48 ore. S’indossa poi una calza elastica con una compressione di secondo o terzo grado.

«Nei sei giorni successivi al trattamento con scleromousse», prosegue lo specialista, «si prescrivono iniezioni sottocute di eparina a basso peso molecolare. Per un mese, oltre a tenere le calze compressive, si assumono compresse di sulodexide o mesoglicano e comuni antinfiammatori (paracetamolo e creme locali) per contrastare la tensione e il lieve dolore causati dall’indurimento del vaso che la sclerosi può comportare, soprattutto nei primi dieci giorni». I controlli vengono effettuati a sette e trenta giorni e a sei mesi dalla procedura.