Marco Bocci racconta della sua malattia, della morte del suo idolo Ayrton Senna e della sua passione per il teatro, con il prossimo spettacolo che porterà in scena, il prossimo 22 luglio.
“Era il primo maggio 1994. Avevo 15 anni — dice Bocci —. Mi trovavo al circuito di Imola per assistere alla performance del mio idolo, Ayrton Senna. A un certo punto non si capisce più nulla e ben presto si percepisce la gravità della situazione, la gara viene interrotta. Arriva l’ambulanza, poi l’elicottero. Mi piomba addosso il silenzio di migliaia di persone. Assistere alla morte in diretta è un orrore”.
A 24 anni di distanza, sempre il primo del mese di maggio, nell’autodromo di Magione, in Umbria, è proprio Bocci a partecipare a una gara di Bmw. “Sono io la vittima di un terribile incidente – dice l’attore – sembra replicarsi la tragedia di Imola. Invece, proprio quell’incidente ha reso palese, ha slatentizzato la mia malattia, ne ha reso possibile l’accertamento e la diagnosi, herpes al cervello, che altrimenti avrebbe avuto un corso
dall’esito irreversibile”.
Adesso Bocci ha deciso di raccontare questa drammatica avventura in teatrale, con un monologo dal titolo “Lo Zingaro”, in scena mercoledì 22 luglio al Teatro d’Annunzio di Pescara, nell’ambito della stagione teatrale dell’Ente manifestazioni pescaresi, con la regia di Alessandro Maggi.
Chi è lo Zingaro?
“È un ragazzo che tutti chiamano così, perché sin da piccolo è appassionato di corse, senza però avere la capacità di farlo, senza trovare sponsor che possano finanziare il suo desiderio. Lo Zingaro sono io: mio padre era ex pilota e, sin da quando avevo 6 anni, mi portava alle corse, era un accanito fan di Senna e mi ha contagiato. Da allora è iniziata la mia fascinazione per il pilota di Formula 1, sia in maniera simbolica, sia sognando di eguagliarlo, emularlo, finché lo vedo morire davanti a me. Lo Zingaro si rende conto che non è bene accanirsi nel seguire un mito, è meglio vivere e accettare la propria normalità”.
Una normalità recuperata grazie a un incidente che le ha fatto scoprire e l’ha salvato dalla malattia?
“Proprio così. Quando sei in salute, o credi di esserlo, non ti rendi conto di quante cose dai per scontato e di quanto prendi solo il peggio della vita. Fai progetti per il futuro: io programmavo investimenti sul mio lavoro e a un certo punto, quando è crollato il pensiero di essere invincibile, ho capito di come, invece, sia importante vivere giorno per giorno. Nella normalità, infatti, la percezione della morte non ti è vicina in maniera invadente, ma solo quando ti tocca in prima persona capisci quanto sia poco distante da te e ti attacchi molto al presente, rimandando ogni progetto. A me è venuta una rabbia, una voglia di vita che prima dell’incubo non avevo”.
La prima emozione, uscito dall’incubo?
“I primi giorni, appena risvegliato dall’intervento, non ero cosciente, né consapevole e tutto ciò che avveniva era vago, me lo hanno raccontato. L’assurdità è che avevo la sensazione che mi raccontassero un film di cui ero protagonista, ma non avevo coscienza di averlo mai girato. Ero uno spettatore che assisteva a un storia di cui ero il personaggio principale”.
Dopo quel fatidico primo maggio 2018 è tornato a correre?
“No, mai più. Però mi capita spesso di sognarlo, senza però la volontà, né l’incoscienza per farlo: per partecipare a quelle gare, occorre essere un po’ folli. Oltretutto io ho due figli ed Enzo Ferrari diceva che i piloti, quando diventano padri, perdono in gara un secondo per ogni figlio. Insomma, la responsabilità paterna fa perdere l’incoscienza e prevale l’importanza degli affetti. Se senti odore di pericolo, gli stai lontano”.
Sua moglie Laura Chiatti ne sarà contenta…
“Certo, anche se mi ha sempre stimolato a non rinunciare alle mie passioni, al mio lavoro e infatti ho appena finito di girare un nuovo film, “Bastardi a mano armata”, un thriller diretto da Gabriele Albanesi. Però è molto più contenta se non corro”.
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