È ormai acclarato che l’opportunità terapeutica dell’utilizzo degli antivirali contro l’infezione da Sar-Cov2 è tanto più efficace quanto prima si utilizzano tali rimedi fin dalle prime fasi dell’insorgenza dell’infezione. Le esperienze sul territorio nazionale, dalla Liguria alla Toscana alla Emilia-Romagna, dimostrano che laddove sono stati messi in campo modelli organizzativi che hanno previsto un coordinamento tra ospedale e territorio, i risultati dell’impiego precoce degli antivirali sono stati importanti. Ed è proprio sull’organizzazione a livello territoriale che si deve scommettere per fare in modo che queste terapie possono aiutare il sistema sanitario a sconfiggere il Covid. Lo hanno evidenziato gli esperti che si sono confrontati al tavolo organizzato da Motore Sanità dal titolo ‘IMPATTO ORGANIZZATIVO DELLE TERAPIE PER LA CURA DELL’INFEZIONE VIRALE DA COVID’, realizzato grazie al contributo incondizionato di GILEAD.
Dalla somministrazione del farmaco antivirale in ospedale alla somministrazione sul territorio, purché in tempi brevi, ma purtroppo esistono dei limiti concreti che attualmente che non lo permettono.
“Abbiamo in questo momento un farmaco sicuramente efficace che se utilizzato correttamente può essere molto più efficace rispetto a quanto stiamo facendo oggi, ma ci sono delle obiettive difficoltà. Soprattutto il fatto di avere una somministrazione per endovena che ne limita fortemente l’utilizzo al domicilio – ha spiegato Andrea Gori, Direttore UOC Malattie Infettive, Fondazione IRCCS Ca’Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano Professore Ordinario Università degli Studi di Milano -. L’indicazione è quella di utilizzare l’antivirale il prima possibile. Oggi Remdesivir è impiegato nei pazienti che sviluppano una insufficienza respiratoria e in ambiente ospedaliero, già in pronto soccorso o nei primissimi giorni di ricovero. Il suo utilizzo, secondo gli studi clinici, è efficace e si associa ad una diminuzione della progressione della malattia se utilizzato nei pazienti con insufficienza respiratoria ancora di grado moderato. Invece se è utilizzato nelle fasi più avanzate dell’infezione ossia quando il paziente necessita o di intubazione o di tecniche di ossigenoterapia non si associa ad un chiaro miglioramento clinico. Dobbiamo pertanto utilizzarlo velocemente per cercare di ridurre al minimo la replicazione”.
“Esistono importanti problemi non solo legati alla somministrazione di questo farmaco, che dovrebbe essere di pertinenza del medico di medicina generale quando il paziente si rivolge nella fase iniziale della malattia, ma anche alla organizzazione che ne consegue, pertanto bisogna delineare il paziente target per questo farmaco per creare così un percorso ospedale-territorio. Abbiamo strumenti importanti per mettere in campo un percorso organizzativo di questo tipo” ha spiegato Gabriella Levato, MMG Milano.
“La sfida maggiore è sicuramente quella di cercare di comporre quanto più possibile il gap organizzativo che ci può essere in una forma di coordinamento del territorio con le strutture ospedaliere – ha commentato Pierluigi Russo, Dirigente Ufficio Registri di Monitoraggio, AIFA -. L’invito alle regioni è quello di cercare di recuperare rapidamente il coordinamento tra il territorio e le strutture ospedaliere, un maggior coinvolgimento organizzativo che consenta di gestire questi pazienti con strumenti che in questo momento si stanno cercando di evidenziare e di utilizzare. L’esperienza degli anticorpi monoclonali ha reso ancor più forte l’esigenza di un maggior coordinamento tra il contesto ospedaliero e il contesto territoriale ma si tratta di affrontare il problema di gestire le terapie infusionali e di trasferire i pazienti positivi al Covid presso strutture ospedaliere. Si tratta di considerare un carico organizzativo importante ed è questa è sfida che dobbiamo cercare di vincere”.
“Il 70% dei pazienti Covid ricoverati sono stati seguiti dalle Medicine interne e il trattamento con Remdesivir è stato fatto in tutti i pazienti eleggibili – ha spiegato Dario Manfellotto, Presidente FADOI –. Ora dobbiamo ripartire da quello che ci siamo lasciati indietro, circa 550-650mila ricoveri in meno di medicina interna oltre alle altre specialità rispetto al milione di ricoveri annui in Medicina di cui il 56% cronici riacutizzati; dobbiamo tener conto del follow up del paziente Covid per le conseguenze respiratorie, cardiovascolari, aterotrombotiche, neurologiche, renali; dobbiamo accrescere le competenze per una risposta sub-intensiva al momento delle emergenze; considerare l’approccio in area medica in équipe multidisciplinare e pensare a una riorganizzazione delle attività ambulatoriali stimolando la crescita della telemedicina. Infine, ospedale-territorio è un legame da rafforzare nella quale la medicina interna ospedaliera è il partner naturale della medicina generale territoriale”.
Secondo una analisi recente, fatta in base ai piani di performance pubblicate dalle aziende sanitarie pubbliche, è emerso che pur con dati di incremento per ricoveri complessivi causati dal Covid 19, il secondo semestre ha mostrato alcuni segnali di adattamento alla situazione e quindi di ripresa, sempre tuttavia in diminuzione rispetto al 2019: da circa 6milioni di ricoveri nel 2019, si passa ad una stima di 4 milioni 700 mila nel 2020 con una riduzione assoluta del 20% e ulteriore riduzione del 24,83% togliendo 238mila ricoveri Covid al 2020.
“Le percentuali di riduzione sono diverse per specialità, alcune strutture sono state capaci nel corso dell’anno di recuperare o mantenere il livello di produzione del 2019, altre strutture hanno registrato cali sensibili – ha dichiarato Davide Croce, Direttore Centro Economia e Management in Sanità e nel Sociale LIUC Business School, Castellanza (VA) -. I ricoveri per Covid-19 rappresentano una percentuale limitata al totale, ovvero circa il 4% dei ricoveri registrati nel 2019 e il 5% del 2020: occorre riprogrammare, anche se con prudenza considerando l’andamento delle vaccinazioni, costruendo nuove strutture destinandole ad hoc al Covid che siano in grado di darci certe garanzie di sicurezza che oggi facciamo fatica ad ottenere”.
C’è inoltre un altro aspetto da considerare. “Da oltre un anno non stiamo preparando in modo appropriato gli studenti di medicina e gli infermieri a causa del cambio di attività loro imposto. Anche gli specializzandi sono stati mandati “al fronte” e non frequentano più i reparti di appartenenza con delle importanti conseguenze sul futuro dei professionisti sanitari. Inoltre la mobilità extraregionale è in generale in diminuzione” ha concluso il Professor Croce.
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