Un nuovo studio condotto da ricercatori della Fondazione Policlinico Gemelli e dell’Università Cattolica, pubblicati sulla rivista scientifica Frontiers in Medicine, rivela che la Glaesserella parasuis, un batterio delle gengive, potrebbe essere la causa principale dell’artrite reumatoide.
Una scoperta questa potrebbe condurre allo sviluppo di un vaccino o di terapie preventive basate su antibiotici per i soggetti a rischio. I risultati ottenuti indicano che Glaesserella parasuis è “riconosciuta” dalle stesse cellule immunitarie (linfociti T), che aggrediscono il collagene di tipo 2 delle articolazioni dei pazienti con artrite reumatoide. “La Glaesserella viene riconosciuta come ‘nemico’ dalle stesse cellule del sistema immunitario che si è scatenato contro le infiammazioni delle articolazioni nell’artrite reumatoide. Il sistema immunitario, per motivi finora sconosciuti, riconosce come nemico numero uno un ‘pezzetto’ (peptide) della proteina del collagene, scatenandogli contro un attacco autoimmune”.
Il primo autore dello studio, spiega che gli stessi linfociti T che si attivano contro il collagene di tipo 2 attaccano anche Glaesserella parasuis, che condivide con la proteina una sequenza di nove amminoacidi. La presenza del Dna del batterio, di solito comune nei più giovani, è stata riscontrata nel 57,4% delle gengive dei pazienti con artrite reumatoide. L’aspetto particolare è che quando Glaesserella parasuis è presente nell’organismo i linfociti T diventano più aggressivi. “La presenza di queste cellule T specializzate identifica una popolazione di pazienti con una forma di malattia più grave e resistente alla terapia convenzionale”, spiega Elisa Gremese, una delle autrici dello studio. “Le ricadute pratiche suggerite da questo lavoro sono essenzialmente due”, aggiunge la ricercatrice. “Una strategia di vaccinazione contro Glaesserella nella prima decade di una vita e/o un’attenta prevenzione delle reinfezioni attraverso terapia antibiotica, che potrebbero aiutare a prevenire l’artrite reumatoide, a renderne meno grave il decorso e forse a riportare i pazienti a rispondere ai trattamenti tradizionali. Ciò potrebbe rivoluzionare il futuro dell’artrite reumatoide”.