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Il disagio emotivo è da sempre una forma di sofferenza un po’ “scomoda”, vista a volte con sospetto, altre con vergogna, spesso comunque come un problema diverso dagli altri, probabilmente perché riguarda la nostra stessa soggettività, il nostro essere persone. Il disagio è spesso frainteso, minimizzato e allo stesso tempo demonizzato, e diventa difficile da collocare nella sua reale dimensione. La figura dello psicologo, colui che si prende cura della soggettività, si presta facilmente a suscitare fascinazioni o timori, e diventa spesso oggetto di miti e leggende, così come il suo metodo di lavoro. Cercherò quindi di esaminare alcuni dei miti più comuni, spesso creati dalle nostre resistenze al cambiamento, per aiutare a fare chiarezza in questo delicato contesto.

Ce la posso fare da solo!

Quante volte ciascuno di noi ha proferito o udito questa esclamazione. Si tratta dell’espressione per eccellenza di chi sta attraversando un momento di difficoltà, una testimonianza di orgoglio e indipendenza. Essa tuttavia cela una importante paura, la paura della dipendenza dall’altro e della perdita di autonomia soggettiva. Chiunque di noi faccia esperienza di una frattura ossea naturalmente si recherà quanto prima da un buon medico per ricevere le cure adeguate, così come per un’influenza o qualunque altro disturbo fisico. Nessuno pensa di potersi ingessare da solo, e accetta di buon grado che il suo corpo venga curato da uno specialista. Non accade così invece per la mente, la sede intima del nostro Sé, il nostro essere individui. Quando è la nostra affettività ad entrare in crisi, incontriamo ferree resistenze all’affidarci ad uno specialista, temendo, come ho anticipato poco sopra, di perdere la nostra autonomia di pensiero, o ancor peggio di essere (o diventare) malati di mente.

Non sono matto!

Questa seconda espressione che riporto concentra in sé la paura della malattia psichica intesa come perdita della soggettività e dunque stato duraturo e inaccettabile. Ognuno di noi può incorrere durante il suo cammino in un momento di crisi, ma accettare di farsi aiutare nell’affrontare il problema, accogliendo un differente punto di vista, sembra quasi un trasformare un momento di difficoltà in patologia conclamata. Dunque rivolgersi ad uno specialista diventerebbe un’ammissione di sconfitta: allora siamo davvero malati! Questo sillogismo che nessuno razionalmente accetterebbe (non mi sono rotto una gamba perché vado al pronto soccorso, semmai è il contrario), nel caso del mondo emotivo si nutre di resistenze al cambiamento e paura di svelarsi, quindi diventa un imponente freno ad ogni tentativo di modificare una situazione irrigidita di disagio. Vediamo quindi nel dettaglio quali sono i preconcetti da superare riguardo al percorso di sostegno psicologico.

Sono venuto da Lei per avere dei consigli.

Il primo diffuso preconcetto sul lavoro dello psicologo, alimentato purtroppo da troppi esempi proposti dai media, consiste nel considerarlo un saggio dispensatore di consigli. Ad una prima analisi può sembrare molto rassicurante il pensiero di affidare i propri dubbi e le proprie incertezze a qualcuno che ha già la risposta più adatta a noi e che sa che cosa è giusto e che cosa non lo è. Si immagina una sorta di papà buono che si prenda cura della nostra vita, indirizzandoci su un cammino sicuro che conduce alla risoluzione dei problemi e – forse – alla felicità. Soffermiamoci però a pensare all’altra faccia della medaglia, e cioè ad uno sconosciuto che pretende di dissertare sulla nostra vita e sulle nostre abitudini, un padre impiccione e pignolo pronto a bacchettare ogni nostra imperfezione, ogni piccola incoerenza, ogni piacevole capriccio. Sarebbe senza dubbio un rapporto di dipendenza un po’ infantile, un po’ masochista, e affiderebbe allo psicologo un ruolo di censore onnipotente che egli fortunatamente non veste. Lo psicologo che opera con professionalità non fornisce consigli, ma aiuta il suo cliente ad allargare il campo della sua riflessione, sottolineando le risorse trascurate, le strade inesplorate e i bisogni interni inascoltati. Sarà poi compito di ogni individuo, alla luce della nuova consapevolezza, costruire un percorso di vita adeguato alle proprie esigenze e rispettoso della propria interiorità. Lo psicologo è chiamato ad accompagnare questo cammino, evidenziandone difficoltà e prospettive, ma sempre nel più assoluto rispetto della soggettività e autonomia individuali.

Farà molto male?

Il termine colorito “Strizzacervelli” fa riferimento ad un altro timore diffuso, quello del percorso psicologico come un lavoro invasivo, il cui obiettivo è aprire la propria mente allo sguardo indagatore dello psicologo. Si tratterebbe dunque di un percorso fatto di pianti e di terribili rivelazioni, una sorta di calvario da scalare per ottenere una qualche sorta di “salvezza”. Insomma, la seduta psicologica sarebbe un contesto dominato dal dovere (“si deve dire, si deve ricordare, …”), e non un luogo in cui si ha l’opportunità di esprimere disagi, difficoltà, dubbi che non hanno occasione di rivelarsi altrove. Come lo psicologo non è un dispensatore di consigli, allo stesso modo non spinge il proprio cliente a rivelare né a “scavare” più di quanto l’individuo stesso non desideri. La seduta psicologica è un luogo di libertà, dove poter stare comodi, lasciando i pensieri liberi di scorrere senza quel controllo spesso ossessivo che esercitiamo quotidianamente. Si tratta quindi del luogo del potere, dove cioè si può raccontare e raccontarsi, stare in silenzio, gioire o arrabbiarsi godendo dell’ascolto benevolo di un interlocutore attento.

Il mito della terapia infinita

Il problema della durata del percorso e uno degli aspetti più importanti e complessi del lavoro di cura. La tradizione psicoanalitica ci ha tramandato l’idea della terapia che dura molti anni, un lungo cammino che ha l’obiettivo di un’evoluzione globale della personalità dell’individuo. Questa continua ad essere tutt’oggi una delle possibilità terapeutiche, ma non è la sola. La psicoterapia si rivolge a coloro che intendono perseguire un cambiamento profondo e strutturale del proprio essere, ed è necessaria nei casi di sofferenze protratte e profonde che richiedono cure più globali. Ci sono invece casi – e sono la maggioranza – in cui l’individuo è alle prese con un momento di crisi all’interno di un cammino di vita relativamente tranquillo, e può preferire un intervento focalizzato a recuperare le risorse adeguate ad affrontare la situazione. Questo significa ampliare il proprio campo di osservazione, evidenziare scenari alternativi, approfondire la consapevolezza dei propri vissuti interni. E’ indubbio che per stabilire una relazione profonda ed efficace tra cliente e psicologo occorre il giusto tempo, e le “scorciatoie” tendono spesso a seguire le resistenze ad un rapporto significativo e le fantasie di “cura istantanea” piuttosto che rappresentare valide alternative. Tuttavia può risultare appagante l’esperienza di un miglioramento progressivo del proprio benessere interno e della qualità delle proprie relazioni affettive, per ritrovarsi in breve tempo a sperimentare un senso di integrità e di consapevolezza delle nostre dinamiche interiori.

Dr. Luca Nicoli
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