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Se si ha la fortuna di sopravvivere ad un attacco cardiaco in molti casi si diventa malati cronici. Nella nostra popolazione 4 persone su mille soffrono di patologie cardiovascolari in modo cronico e nel 2014 la spesa per i farmaci destinati a questi malati, a carico del servizio sanitario nazionale è stata di 8.598.274.970 euro con un incidenza sul Pil di quasi un punto e mezzo.

E, sebbene i progressi della cardiologia abbiano contribuito al guadagno in aspettativa di vita di circa 7 anni negli ultimi 30 anni, le cose sono un po’ peggiorate.

L’età media è infatti calata , passando dai 64 ai 60 anni, con una casistica sempre più ampia al di sotto dei 50 anni. Un abbassamento dell’età – che come sottolineano gli esperti- porta anche ad un progressivo aumento degli infarti in età lavorativa.

Quindi, oltre al rischio di rimetterci la vita, chi è colpito da ictus e infarto deve anche stare attento a non perdere il lavoro.

Sì, perché, una recente studio ha evidenziato che le persone vittime di un infarto difficilmente potevano tornare a lavorare una volta guariti. Ma la colpa non era sempre del datore di lavoro.

Lo studio, eseguito su oltre 22mila persone e condotta da Laerke Smedegaard, della Herlev & Gentofte University di Hellerup (Danimarca), ha messo in evidenza come il 24% delle persone vittime di un infarto perde il lavoro entro un anno dalla ripresa dell’attività lavorativa.

Se da un lato molti datori di lavoro tentano i propri dipendenti colpiti da infarto, in quanto sostengono che possano ridurre la loro produttività a causa di problemi di salute, dall’altro lato sono anche le stesse persone che si vedono costrette a licenziarsi. «Il fatto di riuscire a mantenere il proprio posto di lavoro dopo un infarto è un fattore importante per la qualità di vita, per l’autostima e per la stabilità economica dell’infartuato», spiega Smedegaard.

Anche Carola Adami, fondatrice della società di ricerca di Milano Adami & Associati, ha dichiarato che è arrivata l’ora di iniziare a pensare alle conseguenze che l’infarto ha sul lavoro delle persone che ne sono state colpite.

“Questi dati devono farci riflettere – ha commentato la Adami, – Se ormai da anni si parla dell’accumulo di stress tipico di certe professioni come ulteriore fattore di rischio di infarto, ora dobbiamo iniziare a pensare non solo alle cause, ma anche agli effetti che un infarto può avere sulla vita professionale di una persona”.